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kaufmann repetto gallery is happy to present the group show Revolution from Within. With this exhibition the gallery aims to consolidate its ongoing and long-standing attention toward women artists.
The exhibition spans the three spaces of the gallery, grouping together twelve artists of various generations and countries in order to trace a map of feminine identity, one that stands in contrast to a long-rooted tradition that has often relegated women into a marginal space.
In this sense, Revolution from Within (from the eponymous essay by Gloria Steinem) is intended as an inclusive attitude toward the individual specificities of the female sphere, those usually segregated into a subordinate position, or placed into the realm of otherness.
The exhibition explores the superimposition of categories that, on the surface, appear irreconcilable: feminism and femininity, the political sphere and an aesthetic one, the domestic and collective space. Here, political activism may coexist with exasperated ornamentalism, as seen in Andrea Bowers’ work. The deeply private sphere of an erotic chat room becomes the object of a work by Frances Stark, in which the artist reveals her most intimate self, leading us to meditate on complex social and human mechanisms.
Self-representation becomes the subject in an image of a pile of Valerie Solana’s Scum Manifesto, as photographed by Anne Collier and, in other cases, in the re-contextualization of highly “feminine” objects like Yayoi Kusamasa’s saucepan-organism, or in the stiletto heel that Birgit Jürgenssen fashions into a weapon, an artificial limb, or a penis.
Birgit Jürgenssen, like many other artists in the show, knew how to combine feminism and femininity, conceiving, in as early as the ’70s, an image of a woman who drew strength from her own incongruities. Vulnerability and ephemerality are placed at center stage in the work of Nina Canell and Ketuta AlexiMeskhishvili. Asperity meets the delicate in Marieta Chirulescu’s digital prints and in works and performances by Lucy Dodd. Lutz Bacher’s sculpture represents a huge liver that winks at the viewer, appearing as a sex organ. In contrast, portraits of masculinity transform into a laughable image of weakness: the Bad Boys of Harvard by Maria Loboda are a group of potted plants that, like a gang of bad guys, creep into the gallery space, obstructing transit. The men represented by Goshka Macuga are body builders surrounded by overwhelming nature, or sleepy militants from the Tea Party.
Moving beyond each artist’s specificity, the exhibition also offers possibilities of conciliation and small, everyday rebellions, through the juxtaposition of the voices of women who had the courage to show their own weakness.
La galleria kaufmann repetto è lieta di presentare la mostra collettiva Revolution from Within, con la quale si intende rafforzare l’attenzione che negli anni la galleria ha mostrato verso artiste donne. Negli spazi dell’intera galleria saranno esposti i lavori di 12 artiste di generazioni e provenienze diverse, con l’intento di tracciare una mappatura dell’identità femminile, in opposizione ad una tendenza dalle radici storiche profonde, che vede una marginalizzazione della donna all’interno del sistema dell’arte. In questo senso, Revolution from Within (dal titolo dell’omonimo saggio di Gloria Steinem), è intesa come un’attitudine inclusiva di tutte quelle specificità proprie della sfera femminile, spesso segregate a una posizione subordinata e a uno status di alterità.
La mostra vuole esplorare lo spazio di sovrapposizione di categorie all’apparenza inconciliabili, come femminismo e femminilità, la sfera politica e quella estetica, l’ambito domestico e quello collettivo. L’attivismo può allora convivere con un ornamentalismo portato alle sue conseguenze estreme, come nel lavoro di Andrea Bowers; la sfera più morbosamente privata, come una chat erotica, diventa l’oggetto del lavoro di Frances Stark, che svelando la sua sfera più intima ci porta a riflettere su complessi meccanismi umani e sociali. L’autorappresentazione della donna passa attraverso l’immagine di una pila di edizioni dello Scum Manifesto di Valerie Solana, come nel caso di Anne Collier, o nella ricontestualizzazione di oggetti smaccatamente femminili, come il tegame-organismo per Yayoi Kusama e il tacco che diventa arma, protesi o pene per Birgit Juergenssen. Quest’ultima, come tante artiste in mostra, ha saputo coniugare femminilità e femminismo, concependo già negli anni ‘70 un’immagine di donna che trae forza dai propri contrasti. La fragilità e l’effimero sono messi al centro della scena, come nel lavoro di Nina Canell, o in quello di Ketuta Alexi-Meskhishvili. Ruvidità e delicatezza si incontrano nelle stampe digitali di Marieta Chirulescu, come nei lavori di Lucy Dodd. La scultura di Lutz Bacher è un enorme fegato ma ammicca allo spettatore e si crede un organo sessuale. Di contro, il ritratto della mascolinità rivela debolezze su cui poter sorridere: i Bad Boys of Harvard di Maria Loboda sono un gruppo di piante in vaso che, come una gang di cattivi ragazzi, si sposta nello spazio ostacolando il passaggio. Gli uomini rappresentati da Goshka Macuga sono body builders circondati da una natura che li soverchia o sonnolenti militanti del Tea Party.
Al di là della specificità di ciascun’artista, la mostra descrive nuove possibilità di conciliazione e piccole ribellioni quotidiane, attraverso il confronto tra voci di donne che hanno avuto la forza di mostrare le proprie debolezze.